Performance e nuovi media partecipativi. Dalla video-arte ai laboratori di artiterapie

La produzione di audiovisivi all’interno di progetti di tipo socio-educativo grazie alla crescente disponibilità della strumentazione tecnica è diventata una pratica diffusa con metodologie di intervento in cui la videocamera diviene uno strumento per la crescita dell’individuo e del gruppo. Nella maggior parte dei casi il processo si finalizza con la produzione di un cortometraggio o con un taglio documentaristico con la presenza di videointerviste e reportage per lo più realizzati direttamente dai partecipanti ai gruppi, o con la struttura di una fiction sviluppata su sceneggiature create partecipativamente.

La maggiore accessibilità nell’impiego degli strumenti multimediali sta variando ulteriormente le possibilità per gli operatori che progettano proposte di intervento con il video in area socio-educativa aprendo a nuove opportunità espressive che mantengano, al contempo, la specifica attenzione al processo e alle dinamiche di gruppo caratterizzanti questo tipo di interventi.  

Alcune di queste iniziative mostrano degli elementi di analogia con l’uso del video fatto a cavallo tra gli anni 60 e 70 nell’area della Performance-Art al cui interno si svilupparono a seguire molte esperienze di video-arte. L’interdisciplinareità dell’approccio performativo si basa sulla ricerca degli elementi comuni minimi fra le arti mantenendo come elemento sempre presente il corpo del performer. I percorsi di formazione dei performer, analoghi alle accademie per attori, includono significativamente l’uso della videocamera come materia d’insegnamento obbligatoria facendo rientrare l’immagine digitale tra gli strumenti essenziali nel processo performativo al pari  delle altre tecniche artistiche che, dalla danza al teatro, trovano collocazione  nella performance-art.  Per questi motivi offrono un esempio utile e affine ai laboratori socio-educativi in cui il video trova impiego come mediatore artistico.

Del resto i performer di ormai cinquant’anni fa come Robert Morris, Richard Serra, Bruce Nauman, Marina Abramovich iniziarono a usare il video per la dimensione autoriflessiva, percettiva e concettuale che l’immagine forniva. Vito Acconci affermava: ” La capacità di vedere se stessi fare qualcosa nell’esatto momento in cui la si sta facendo. Ho allora usato il video come un processo conoscitivo, un dispositivo di correzione : potevo fare qualcosa – potevo controllare ciò che stavo facendo, vedere come lo facevo, scoprire dove sbagliavo – potevo correggere i miei errori e andare avanti passo passo” .

Questo tipo di esplorazione artistica  privilegiava la dimensione processuale e esperenziale concependo l’opera come qualcosa di non definitivo, ma in continua trasformazione come la realtà.  “Tutte le performance che abbiamo fatto, dice Marina Abramovich, non sono mai state provate, mai ripetute e noi stessi ( lei e Ulay) non ne conoscevamo la fine”.

Le performance eseguite dall’artista, inoltre, erano spesso esclusivamente per la telecamera e registrate in tempo reale con protagonista il corpo del performer Impegnato in azioni e gesti elementari, come afferrare e sciogliere nell’opera di Richard Serra  “Hand Catching Lead” (1) o il pettinarsi compulsivo di Marina Abramovich in “Art must be beautiful” (2) o       il truccarsi di Bruce Nauman in “Art Make-Up” (3).

In queste opere dei primi anni Settanta, lo spazio disegnato da telecamera e monitor diventa una palestra-laboratorio entro i cui confini l’artista può esplorare la dimensione del corpo e dello spazio, l’io e il tu, il soggetto e l’ambiente essendo allo stesso tempo autore e spettatore.

Nell’ambito socio-educativo può trovare spazio un lavoro con il video che non è finalizzato alla produzione di un tipo di narrazione lineare dotata del consueto inizio, sviluppo e fine. La macchina da presa definisce un campo che è una soglia entro cui attraverso l’esplorazione della gestualità e della presenza come semplice processo esperienziale si ricavano immagini che possono essere restituite in una forma diversa dal cortometraggio.

Attingendo alle esperienze di video-arte notiamo una tendenza che si afferma negli anni 90 di creare percorsi percettivi per lo spettatore attraverso la creazione di ambienti visivi e sonori costruiti per accoglierlo. La dimensione multisensoriale e sinestetica è analoga a quella sperimentata all’interno dei laboratori espressivi di arti terapie. In quest’ambito le immagini possono essere proiettate, ad esempio, come scenografie virtuali che accompagnano le azioni del gruppo. Le immagini utilizzate possono essere prodotte sia pre-registrando le azioni performative dei partecipanti sia catturando dal vivo con software di sempre più facile impiego, in particolare i cosiddetti software da VJ (Video Jockey) come Resolume (www.resolume.com) o Module8 (www.modul8.ch). La luce proiettata costituisce inoltre una valida soluzione per creare una luce d’ambiente facilmente modulabile e quindi a supporto delle basi sonore utilizzate per le attività del gruppo.

Un altro esempio artistico in cui la combinazione di immagine, suono e performance è caratterizzante viene da movimenti come Fluxus in artisti come Cage, Maciunas, Nam June Paik esplorano gli “intermedia”, forme espressive nate dalla combinazione e intersecazione di differenti linguaggi (film, danza, musica).  “Merce by Merce by Paik di Nam June Paik” (1978) opera che sviluppa lo stesso filone è significativa come “manifesto” della video danza (4).

Altri esempi interessati di commistione tra video e performance vengono dal teatro. Successivi alla Performance-Art dalla metà degli anni 70 si verifica una intensa sperimentazione da parte dei registi teatrali delle possibilità portate dai nuovi media. L’esperienza più avanzata in Italia di integrazione fra dispositivi della scena teatrale e immagine elettronica, si è avuta con gli spettacoli realizzati da Studio Azzurro e Giorgio Barberio Corsetti come “Prologo elettronico a diario segreto contraffatto”(5) (1985) che ne “La Camera Astratta” (1987)(6).

L’accresciuta accessibilità di software e proiettori permette una rapida riproduzione degli stessi processi artistici in ambito laboratoriale e con una finalità di tipo socio-educativo. L’immagine completa ed acquista senso con l’azione del partecipanti al gruppo. In aggiunta a ciò le immagini possono andare a comporre una videoinstallazione autonoma che sostituisce la più consueta restituzione sotto forma di cortometraggio. Esperienze a livello laboratoriale possono avvalersi attraverso strumenti cosiddetti di videomapping (www.madmapper.com) della possibilità di proiettare le immagini adattandole a superfici architettoniche o oggetti. In questo modo si possono proiettare filmati costituiti da più riquadri che raccontano più storie in parallelo o senza una struttura narrativa a sviluppo lineare come, ad esempio, storie a finale multiplo. Questo tipo di esperienza accoglie inoltre la possibilità di radicare la fruizione delle immagini così raccontate a degli spazi specifici del territorio come ad esempio strutture di quartiere nell’ottica di voler valorizzare la piazza come spazio d’incontro e di confronto.

L’esperienza proposta da questo tipo di videoinstallazione inserita nei laboratori espressivi recupera anche un’altra dimensione dell’arte elettronica che è quella dell’interattività.  Allo spettatore si richiede di mettersi in azione affinché l’opera possa dispiegare le sue potenzialità e manifestarsi nella sua interezza. Un esempio è In “Coro”(7) (1995) di Studio Azzurro in lo spettatore calpestando i corpi nudi proiettati sul tappeto, provoca i loro movimenti. Il tipo di interazione proposta recupera la dimensione della tattilità e la centralità del corpo che diventa un’aspetto da esplorare come possibilità espressiva di un lavoro condotto in area socio-educativa come, ad esempio, nel lavoro con gli adolescenti. L’apparente complessità dell’impegno realizzativo è infatti via via resa meno difficoltosa grazie alla possibilità di avvalersi di strumenti a basso costo per l’interazione gestuale come leap-motion (www.leapmotion.com) o kinect di microsoft.

L’operatore sociale non deve trasformarsi in tecnico né fare un uso superfluo della tecnologia rispetto ai propri obiettivi specifici della sua funzione educativa o riabilitativa. La conoscenza approfondita del proprio contesto di intervento permette però di fare un uso efficace delle opportunità espressive che l’impiego si soluzioni tecniche sempre più accessibili offre. Le prime esperienze di video-arte del resto si avvalevano di semplici videotape là dove oggi un telefonino può garantire funzioni ben più avanzate. Un’occhio attento alle esperienze artistiche che si sono avvalse dei nuovi media può per questo offrire un aiuto nel tentativo di coniugare la dimensione esperienziale ed espressiva con l’impiego di strumenti tecnici che, se non introdotti nel loro uso appropriatamente, possono creare resistenze. Dove questo avviene si possono trovare nuove opportunità di interesse e stimolo per un approccio creativo e coerente con i propri obiettivi di intervento.

 

 

 Sitografia:

  • Richard Serra  “Hand Catching Lead” (1967)

http://www.youtube.com/watch?v=_NBSuQLVpK4

  • Marina Abramovich “Art must be beautiful” (1975)

http://www.youtube.com/watch?v=8cCFDSzDnUk

  • Bruce Nauman “Art Make-Up” (1967)

http://www.youtube.com/watch?v=cOB5L89cC8A

  • Nam June Paik “Merce by Merce by Paik” (1978)

http://www.digitalperformance.it/?p=2020

  • Studio Azzurro e Giorgio Barberio Corsetti “Prologo elettronico a diario segreto contraffatto” (1985)

  • Studio Azzurro e Giorgio Barberio Corsetti “La Camera Astratta” (1987).

  • Studio Azzurro “Coro” (1995)

 

 

Bibliografia:

 

  • Valentini, Teatro in Immagine,vol. I e vol II, Bulzoni, Roma, 1987
  • Fiaschini, Dionysus in 69:Richard Schechner, tra teoria e prassi della performance. Manthicora, 2011
  • Studio Azzurro (a cura di V. Valentini), Percorsi fra video cinema ,teatro, Electa, Milano,1995;