RIFLESSIONI SU UN TEATRO PER SDRADICARE GLI STEREOTIPI DI GENERE

Lo stereotipo è un modello convenzionale di atteggiamento, un’opinione precostituita, generalizzata e semplicistica, che si ripete meccanicamente.

Già nel 1922 Lippmann scriveva: “non vediamo quello che i nostri occhi non sono abituati a considerare. Siamo colpiti, talvolta consapevolmente, più spesso senza saperlo, da quei fatti che si attagliano alla nostra filosofia“, cioè ad “una serie più o meno organizzata di immagini per descrivere il mondo che non si vede” (W. Lippmann, L’Opinione Pubblica, Donzelli, Roma, 2004).

A partire da questi limiti, l’analisi di Lippmann ricostruisce come i messaggi provenienti dall’esterno siano influenzati dagli scenari mentali di ciascuno, da preconcetti e pregiudizi.

In particolar modo gli stereotipi di genere sono quell’insieme rigido di credenze condivise e trasmesse socialmente, su quelli che devono essere i comportamenti, il ruolo, le professioni, l’apparenza fisica di una persona, in relazione alla sua appartenenza al genere maschile o femminile. La mancanza di conformità a tali attese fa sì che le persone vengano giudicate e discriminate. 

La costruzione sociale del genere influenza le nostre scelte sin dalla primissima infanzia. Ormai diversi studi a livello internazionale dimostrano come i modelli di ciò che è considerato maschile e ciò che è ritenuto femminile non siano il frutto di caratteri naturali o fisiologici, quanto invece specifiche costruzioni storiche e sociali.

Anche la violenza di genere ha radici culturali ed è basata su una storica disuguaglianza tra i sessi e soltanto rendendoci promotori di una cultura in favore della parità di genere potremo sdradicare questo drammatico fenomeno. 

Nella Convezione di Istanbul si riconosce “che la violenza contro le donne è una manifestazione dei rapporti di forza storicamente diseguali tra i sessi, che hanno portato alla dominazione sulle donne e alla discriminazione nei loro confronti da parte degli uomini e impedito la loro piena emancipazione“. 

La donna da sempre è relegata al ruolo di cura della casa e dei figli. L’immagine rassicurante del focolare domestico. La donna nella pubblicità con in braccio un bambino e nell’altra mano un detersivo per il bucato. La donna oggi è colpevole se lavora, è colpevole se resta a casa, è colpevole se sceglie di lasciare il lavoro per prendersi cura dei figli ed è colpevole se sceglie di non concepire figli perchè pensa alla carriera. Gli stereotipi intrappolano anche gli uomini ad essere necessariamente forti, a non piangere ad essere dominatori e ad essere quelli che portano i pantaloni e hanno il controllo della situazione.

Jean S. Bolen sottolinea come “abbiamo imparato come gli stereotipi possano distorcere e limitare il potenziale umano, soprattutto nelle donne […] molte di noi sono arrivate a capire quanto una cultura patriarcale influenzi la vita personale di ciascuno. Valori e credenze vengono plasmate dalla cultura, che si riflette nelle leggi e nelle usanze e determina la distribuzione del potere e l’individuazione dei meriti e dello status sociale. In una società patriarcale le donne non vivono bene. Ma anche gli stereotipi maschili si impongono agli uomini, e limitano i modelli di personalità in cui si sentirebbero a proprio agio, premiando certe qualità e rifiutandone altre(J.S. Bolen, Gli dei dentro gli uomini. Una nuova psicologia maschile. Astrolabio, Roma, 1994).

Certamente le leggi si sono evolute nel corso degli anni. Siamo passati dal delitto d’onore e dal matrimonio riparatore al codice rosso. L’evoluzione c’è, ma c’è un discorso culturale che va fatto chiaramente e in modo incisivo, ed è necessaria una pratica di consapevolezza da parte di ciascuna e di ciascuno di noi.

L’arte aiuta da quando è nata l’umanità. Ogni forma espressiva, dal canto alla musica, dalla poesia al teatro, dalla danza alla pittura e alla scultura hanno aiutato l’essere umano ad esprimere contenuti difficilmente evocabili e rappresentabili a parole. In particolar modo le tecniche teatrali e di consapevolezza corporea, ci aiutano a comprendere come il linguaggio che utilizziamo e la cultura nella quale siamo immersi orientino e condizionino le nostre scelte. 

E’ nel corpo e nella voce; nel movimento e nel modo in cui abito lo spazio intorno a me che sono scritti i codici che siamo abituati a ripetere pedissequamente, solo diventandone consapevoli potremo trovare nuovi codici e nuove immagini per noi stessi. Immagini che siano in grado di generare una cultura non violenta ed inclusiva ed accogliente verso le differenze. Lasciandoci così essere liberi dai preconcetti e di sviluppare le nostre risorse. Incontrare le nostre polarità e riflettere sull’incontro con l’altro, sulle paure che ci scatena e al contempo sull’individuazione delle nostre risorse interne ed esterne. Proprio quelle sulle quali appoggiarci per ripartire.